È da davvero tanto tempo che non scrivo più nulla, e questo è dato dal fatto che, finalmente, le mie giornate sono scandite da un ritmo più veloce di quanto fossero all’inizio.
Ho finalmente cominciato i corso di Svedese. La Svezia è un posto molto, molto costoso, e i diversi corsi privati che ci sono qui a volte hanno prezzi molto alti, considerato che ci sono anche i libri da acquistare. Un’ottima soluzione l’ha trovata la mia host family, che mi ha iscritta all’SFI, ovvero School for Immigrants. Io non sono un’immigrata, ma diciamo che cercano di chiudere un occhio in favore di una maggiore integrazione. Infatti, qui cercano di integrare il più possibile gli stranieri, poiché in questo modo hanno anche un maggiore controllo. Questo è anche lo stesso motivo per cui incentivano molto gli stranieri a richiedere il personnummer. In pratica, detto molto alla spicciola, è la carta d’identità svedese. In questo modo, ti possono registrare nel loro sistema, il ché non è affatto male perché, nonostante da quel momento tu debba pagare le tasse, sei maggiormente tutelato in un Paese straniero. Normalmente, per le au pair le tasse le dovrebbero pagare le famiglie, perché sono loro a dover pagare il lavoratore. Nel mio caso è un po’ diverso, perché nella mia host family sono la prima au pair che ha voluto richiedere il personnummer, e nel contratto questo non c’era, è stata una scelta mia. Se per caso qualche ragazza che vuole fare la stessa esperienza passa di qui, le consiglio vivamente di parlare di questo con la famiglia che la ospiterà, perché credo sia importante. È anche vero che dipende dal singolo caso: le precedenti au pair della mia host family non avevano in programma di studiare e vivere qui dopo aver lavorato come au pair, volevano tornare nei loro Paesi. Io, invece, ho un programma diverso per il mio futuro, ed essere registrata qui come cittadina mi facilita molto per l’iscrizione all’università e la ricerca di un lavoro. A tale riguardo, è praticamente essenziale saper parlare lo svedese: se non parli la lingua locale è davvero tanto, tanto difficile trovare un lavoro, anche per il più umile possibile.
Questo è il motivo per cui sto cercando di integrarmi il più velocemente possibile.
Il corso che frequento mi tiene parecchio occupata, poiché è intensivo: vado lì ogni mattina per quattro ore, per poi tornare a casa, mangiare e iniziare a lavorare. Dunque, ho degli orari abbastanza serrati, ma vedo già molti risultati, il ché è incoraggiante. Inoltre, è ottimo anche perché la scuola ha un sito internet dove potersi esercitare anche a casa e ti forniscono gratuitamente il libro di grammatica. L’unico altro libro che serve, io ed i miei compagni di corso l’abbiamo facilmente trovato nella biblioteca accanto a dove studiamo. Cercano di facilitare il più possibile l’istruzione, e si vede.
Un’ottima cosa riguardo al corso è anche il fatto che si possono fare moltissime amicizie. Ho incontrato due altre ragazze italiane, tantissimi siriani, molte filippine, un inglese ed un americano, una donna cinese ed una donna thailandese. Al corso, ci sono prevalentemente rifugiati siriani, poiché tantissimi di loro sono fuggiti dal loro Paese e sono arrivati qui in cerca di una vita un po’ migliore. Lo Stato li tutela molto, addirittura li paga per venire al corso, e per quel che mi riguarda credo sia un metodo molto lungimirante, atto a non avere problemi, specie dopo l’attacco terroristico di un po’ di tempo fa.
Un altro metodo, che si è rivelato molto proficuo, per stringere nuove amicizie è inscriversi a gruppi FB di au pair che si trovano nella propria città. Io, per esempio, mi sono iscritta al gruppo “Au pair in Malmö”, e la mia rete di amicizie si è enormemente ingrandita da quando sono arrivata qui.
Dunque, questo periodo si sta rivelando ottimo. I rapporti con la host family, tra l’altro, sono ottimi e più stretti. E Betty, la bambina, che all’inizio era un po’ diffidente, adesso si è affezionata molto a me. Oggi è il suo compleanno, e per farle un regalo qualche giorno fa l’ho portata con me a fare shopping. Le è piaciuto moltissimo, mi ha anche detto che è stata la prima volta che un’au pair l’ha portata a fare shopping e le ha permesso di scegliere quello che voleva. All’inizio non ci ho molto creduto, sarò sincera, ma la madre me l’ha confermato. L’ho trovato un po’ strano, perché è vero che non fare un regalo non è dovuto, né da parte dell’au pair, né da parte della famiglia ospitante, ma credo sia un ottimo modo per rinsaldare i legami e omaggiare la persona che lo riceve. Credo che Betty abbia capito che mi sta a cuore, e quindi ora si è sciolta molto con me. Mi ha anche preparato un muffin al cioccolato tutto per me, ed è stato un pensiero dolcissimo.
Dunque, è davvero un periodo favorevole per me. L’unica nota stonata è stata con quello che ora posso definire il mio ex. E no, non è stata la distanza il problema. Le relazioni a distanza possono essere molto problematiche, ma in questo caso era l’ultimo dei nostri problemi e ne ho preso atto molto in fretta. Credo che, soprattutto per chi vive queste relazioni, sia necessario avere un po’ di spirito critico e capire se può funzionare o meno. Nel caso di Juliet e Patrick, per esempio, ha funzionato comunque. Mi hanno raccontato molto della loro storia, del loro matrimonio, essendo grandi sostenitori della condivisione, dell’apertura con le persone. E Juliet in particolare mi ha spesso raccontato di quando per un periodo lei abitava qui in Svezia con i bambini mentre lui doveva lavorare in Africa per quattro mesi. Nel loro caso, credo sia stato anche più difficile, perché c’erano dei figli di pochi anni in mezzo, mentre nella maggior parte delle relazioni a distanza le persone coinvolte non sono ancora sposate, né tanto meno hanno figli. Ma, essendo il loro rapporto già comprovato, hanno resistito, anche se per farlo hanno dovuto fare terapia di coppia perché erano sull’orlo del divorzio.
Per quel che mi riguarda, credo che la distanza possa essere semplicemente un fattore da prendere in considerazione, ma i problemi sono altri. Alle volte, semplicemente, non c’è più sentimento, o non c’è onestà, o comunione d’intenti. Credo che siano queste le basi di tutto e le cose su cui si debba lavorare, cosicché la distanza non sia affatto un problema.
Per fortuna, non sono il tipo di persona incapace di stare da sola, senza un fidanzato accanto, quindi la singletudine non mi spaventa. Nonostante questo, all’orizzonte c’è qualcuno. Ho conosciuto un ragazzo, olandese, alto due metri e con un fisico mozzafiato. Ha l’aria da bel tenebroso, e ha una certa somiglianza con Orlando Bloom in versione bionda da LotR. E con questo credo di aver detto tutto.
Mi ha anche ospitata a casa sua per dormire un paio di volte, senza che ci abbia provato. Questo non perché non sia interessato, dato che poi mi ha fatto capire che invece lo è, ma perché c’è propria una diversa cultura. In generale, qui la regola per flirtare è all’opposto dell’Italia: non è l’uomo a fare la prima mossa, ma la donna, e questo non solo in Svezia ma un po’ in tutti i Paesi nordici. Questo perché il Femminismo qui imperversa, ed è facile che un uomo che ci prova venga visto come un molestatore. Personalmente, credo che qui il Femminismo sia un pochino esagerato, nel senso che spesso è andato non ad incitare la parità tra i sessi ma la supremazia della donna sull’uomo. Di conseguenza, qui gli uomini sono molto più reticenti, e bisogna fargli capire chiaramente il proprio interesse senza mezzi termini. Solo allora si dimostrano a loro volta interessati. Questo è anche il motivo per cui molti uomini svedese, superata una certa età, se non hanno trovato ancora una moglie qui la cercano spesso all’estero.
Riguardo alla cultura svedese, sto imparando molto ma, spesso e volentieri, tramite l’esperienza di Juliet: è lei che mi racconta un po’ della gente qui intorno, altrimenti io non saprei proprio cosa dire al riguardo, perché è difficile entrare in contatto con loro. Gli unici svedesi che conosco e che mi hanno accolta sono Patrick e sua madre, che è una donna straordinaria, per inciso.
È Juliet, però, che ha un occhio da “straniera in terra straniera” e che può più facilmente capire meglio il distacco tra loro e noi. È lei che mi ha raccontato di come, alle volte, si sia sentita poco accolta, o indesiderata, o come, specie qui a Ljunghusen, che è la versione svedese della Orange Counrty californiana, dove c’è la gente bene, ricca e facoltosa, siano un po’ tutti fatti con lo stampino: mi ha raccontato di come su Facebook tutte le donne della zona siano vestite in maniera quasi completamente uguale, perché frequentano gli stesso posto, gli stessi negozi, e seguono tute le ultime tendenze. E tutti quanti hanno le stesse macchine, lo stesso stile d’arredamento, ecc… Questo perché valutano molto l’apparenza. Addirittura, i loro vicini di casa hanno una villa ed una macchina costose, che però in realtà non si possono permettere, ed infatti non vanno a fare la spesa in negozi costosi ma da ICA, che sarebbe l’equivalente dei discount nostrani. Ma ce la mettono tutta per apparire più ricchi di quanto siano.
L’apparenza, qui, è davvero tanto importante: non è un caso se tutti i sedicenni che vedo girare per la città vestono firmato da capo a piedi. L’oggetto di culto è rigidamente rispettato, e la pressione sociale per quanto riguarda studiare nelle scuole giuste, frequentare la gente giusta e avere il lavoro giusto sono altissime. Non è un caso che la Svezia vanti tristemente un tasso di suicidi tra i più alti d’Europa, e certo, può essere anche per il fatto che nel corso dell’anno le ore di luce giornaliere siano minori rispetto al Sud Europa, e che questo influisca sull’umore. Ma non si arriva al suicidio solo per quello. Credo che la gente qui provi disperatamente a conformarsi ad uno standard, nella convinzione che poi saranno felici e soddisfatti. Ma che succede se non si arriva mai a quello standard, soprattutto visto che è così alto? Cosa succede se non si ha avuto il tempo di formarsi anche un carattere forte che sostenga questa pressione, una maggiore fiducia in se stessi? Cosa succede se per tutto il tempo il giudizio altrui è stato più forte del proprio, e non si è badato mai a chiedersi cosa ci rende davvero, intimamente, felici?
Credo che in Italia, come in Spagna, in Francia e in tutti qui Paesi maggiormente a Sud, siamo in generale più spontanei, e questa è una salvezza in questi casi.
La madre di Patrick, per esempio, è un’eccezione: è una bella donna di settant’anni che vive la vita con giovialità e se la gode. Ha viaggiato tanto, ha imparato a fregarsene del giudizio altrui e ad essere aperta. Ed è fantastica!
Oggi approfitterò della bella giornata per andare in spiaggia a prendere un po’ di tintarella, in compagnia di due altre au pair colombiane, che hanno una visione della vita estremamente latina, come me. E, nel frattempo, pianifico le vacanze che mi aspettano ad agosto.
A presto e buon proseguimento!